Archivio per aprile, 2016

Il Governo Renzi si è fermato ad Eboli

Pubblicato: 5 aprile 2016 in zona 22

Trivellazioni-nel-Cilento

Rispetto alle notizie recenti che coinvolgono l’ormai ex Ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi e il suo compagno Gianluca Gemelli, indagato per l’impianto Total Tempa rossa in Basilicata, emergono dati rilevanti, che tracciano un quadro a tinte fosche sulle implicazioni politiche attorno al settore petrolifero in Lucania.

Secondo le intercettazioni, realizzate nell’ambito dell’inchiesta antimafia sul traffico dei rifiuti realizzata dalla magistratura di Potenza, la Ministra Guidi avrebbe favorito l’interesse del suo compagno Gianluca Gemelli, titolare della società I.T.S e della Ponterosso Engeneering, entrambe attive nel settore petrolifero, garantendo il via libera a un emendamento alla legge di Stabilità, a favore del progetto petrolifero “Tempa Rossa”.

Il primo filone dell’inchiesta riguarda presunti illeciti nella gestione dei reflui petroliferi al Centro Olii dell’Eni in Val D’Agri, a Viggiano. Secondo il gip i vertici locali dell’Eni “qualificavano in maniera del tutto arbitraria e illecita” rifiuti pericolosi derivanti dall’attività estrattiva, come “non pericolosi”, alterando i dati sulle emissioni in atmosfera.

Il secondo filone concerne l’affidamento di appalti e lavori per il giacimento “Tempa Rossa” della Total, attraverso il potenziamento della raffineria Eni di Taranto. Ed è per questa tranche d’inchiesta che Gemelli è accusato di corruzione e traffico di influenze.

Il progetto Tempa Rossa ha il suo cuore nel giacimento lucano la ci concessione è ad appannaggio di Total (al 50%) Shell e Mitsui. I sei pozzi in Basilicata (più 2 da autorizzare) a regime dovrebbero produrre 50 mila barili al giorno, aumentando del 40% la produzione nazionale di greggio.

Una volta estratto da qui, il petrolio dovrà essere portato a Taranto, per stoccarlo e raffinarlo. Il potenziamento della raffineria Eni, nella città dell’Ilva, è però inviso a cittadini, movimenti e politici locali. Il motivo è spiegato dall’Arpa Puglia che nel 2011 scriveva: “L’esercizio di questi impianti comporterà un aumento delle emissioni diffuse pari a 10 tonnellate/anno che si aggiungeranno alle 85 tonnellate/anno già prodotte (con un incremento del 12%)”.

E’ a questo punto che interviene l’emendamento caldeggiato, secondo le intercettazioni, dalla Guidi: esso prevede che l’autorizzazione unica per le opere “strategiche” valga anche “per le opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria, alle opere accessorie, ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali” anche lontano dal giacimento.[1]

In caso di opposizione degli enti locali, il secondo comma del Decreto Sblocca Italia, inoltre, prevede che, in quanto strategiche, queste opere siano di competenza del governo.

Il 19 Dicembre 2015, viene dato il via libera per l’inizio dei lavori a Taranto.

Il dibattito sullo sviluppo estrattivo, in Regioni con un alta presenza di giacimenti petroliferi come la Basilicata, è spesso ostaggio del principio “petrolio = sviluppo economico del territorio”. Pubblichiamo di seguito alcune riflessioni rispetto a quello che 30 anni di sviluppo industriale estrattivo abbiano generato in Basilicata, la terra dalla quale è partita l’inchiesta che ha portato alle dimissioni della Ministra della Repubblica Italiana Federica Guidi.

Basilicata: il Texas italiano

Viaggio nella più grande riserva petrolifera d’Italia

Un ricco mosaico di paesaggi mozzafiato, di meraviglie naturali, sorgenti di acque minerali, antichi borghi abbarbicati sui monti, foreste fitte e selvagge. Una Regione che pare stia tentando un rilancio economico e culturale, investendo sulla fruibilità del suo territorio storico, dei suoi contenuti architettonici e culturali, con ampie ricadute turistiche. Tant’è che è Matera la città proclamata capitale europea della cultura 2019.

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A questa incommensurabile ricchezza paesaggistica e storica, si aggiunge un primato: la Basilicata garantisce oltre l’80% della produzione nazionale di petrolio. In particolare la Val d’Agri, con i suoi 38 pozzi di estrazione, di cui 27 in produzione e i restanti 11 “produttivi non eroganti”, costituisce “ad oggi il più grande giacimento di petrolio onshore dell’Europa Occidentale”[1], come si legge sul sito dell’Eni.

Ma quali sono i risultati di un modello di sviluppo che, da 30 anni a questa parte, fonda le sue basi sull’estrazione del petrolio?

Il 78% della superficie regionale è in mano ai petrolieri, sfondato e sventrato per l’interesse e il profitto di qualche multinazionale a discapito di un’intera comunità, con danni inestimabili all’agricoltura, al settore enogastronomico, al turismo, alla salute dei cittadini e al loro status economico e sociale. Sono questi gli effetti di quella che si può definire una vera e propria operazione coloniale, realizzata attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, fuori da ogni prospettiva di sviluppo a lungo termine, ovvero sostenibile. La fetta più grande della torta va all’Eni che controlla il giacimento della val d’Agri. Ma alla spartizione partecipano anche: Shell, Delta Energy, Total, Rockhopper, Italmin, Aleanna e Apennine.

In cambio, la Regione incassa il 7% dei profitti che Shell e Eni accumulano: è la più bassa royalty d’Europa, meno dei diritti pretesi da Russia, Angola e Messico per le trivellazioni. Un bell’affare, a raffronto dello stupro di un territorio dalle risorse inestimabili.

Se guardiamo ai dati macroeconomici, l’Istat certifica che nel 2015, la Basilicata si aggiudica il primato di essere una delle regioni più povere d’Italia, con un tasso di povertà del 25,5%: un lucano su quattro è quindi povero. Un trend che si conferma tra i più disastrosi in un Paese che soffre drammaticamente il peso della crisi, con un tasso di povertà che al livello nazionale si attesta sulla soglia del 12% circa. [2]

Gli effetti sulla salute

Altro triste primato: l’incidenza dei tumori tra i lucani è superiore a quella che si registra nel resto d’Italia. Nemmeno nelle regioni del Nord, che pure sono zeppe di fabbriche, si presenta un’incidenza simile.[3] Tanto che – ipotizzando eventuali correlazioni con fattori ambientali – sono stati avviati supplementi d’indagine dal Dipartimento della Salute della Regione Basilicata e dall’Arpab.

Intanto i lucani si ammalano. Respirano un’aria densa di zolfo, anidride carbonica e metalli pesanti. Il numero dei casi di malattie infettive e respiratorie cresce costantemente, e ad oggi ha superato del doppio la media nazionale. L’elevata incidenza tumorale, tuttavia, non è una scoperta recente: già nel 1996 i medici segnalarono l’incremento di decessi e casi di tumore ai polmoni nella zona, legati anche agli incidenti legati alle attività estrattive (su molti dei quali nessuno ha mai svolto un’indagine). Il rischio di contaminazione delle falde acquifere è elevatissimo, data la vicinanza tra i pozzi e i corsi d’acqua: e nessun sistema di monitoraggio è attivo nella zona.[4]

Secondo la dottoressa Rosanna Suozzi, medico e attivista No-Triv “le perforazioni esplorative e le trivellazioni, innanzi tutto, non considerano mai l’impatto sanitario, provocato sia dall’uso dell’uranio impoverito (Brevetti della Halliburton 1984 e 2011) che da un mix di altri composti radioattivi e metalli pesanti, sulla testa delle trivelle, sia dall’utilizzo di solventi e sostanze chimiche (circa 700 secondo Dr Susan C. Nagel of the University of Missouri School of Medicine), usati per favorire la penetrazione delle trivelle nel sottosuolo.”

In particolare, ciò comporterebbe l’ aumentata incidenza di cancro della mammella nelle donne e di tumore alla prostata negli uomini. Anche gli scarti della lavorazione petrolifera, ossia i cosiddetti fluidi di perforazione (per un barile di petrolio sono necessari circa 160 lt di acqua), contaminando acqua e suolo, altererebbero la catena alimentare causando anch’essi danni alla salute[1].

[1]     http://www.eni.com/eni-basilicata/attivita/distretto-meridionale/distretto-meridionale.shtml

[2]     http://www.istat.it/it/archivio/95778

[3]     http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/basilicata/92044/In-Basilicata-e-record-per-malattie.html

[4]   http://www.viggianolab.it/userfiles/Basilicata%20Saudita_dirittodicronaca.pdf

 

Capitolo III: rifiuti

Nella “Relazione territoriale sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Basilicata”, documento prodotto nel 2012 dalla competente commissione parlamentare, si legge: “Una peculiarità del territorio è data dalla presenza di giacimenti petroliferi – concentrati soprattutto nella Val d’Agri e a Tempa Rossa, in provincia di Potenza – cui sarebbero connessi fenomeni di inquinamento legati alle perforazioni, aggravati dal possibile utilizzo illecito degli scavi per l’occultamento di rifiuti tossico nocivi.”[2]

Sebbene non ci siano evidenze di infiltrazioni strutturate della criminalità organizzata, si registrano diverse irregolarità ambientali come ad esempio:

  • la presenza di numerose discariche abusive, senza che ben si comprenda da dove provengano i rifiuti;
  • pozzi di prospezione petrolifera abbandonati in cui sono presenti rifiuti smaltiti illecitamente;
  • una delle percentuali più alte in Italia di rifiuti pericolosi sulla quantità totale di rifiuti speciali prodotti;
  • l’ inceneritore della Fenice, attivo da anni accanto allo stabilimento Fiat di San Nicola di Melfi, su cui pende un’inchiesta della Procura per aver avvelenato l’ambiente circostante e le falde acquifere del fiume Ofanto, ed aver tenuto nascosta la questione per anni, insieme all’organo di controllo preposto: l’Arpab.

Tra le varie inchieste aperte nel corso degli anni, è emersa anche la presenza di alcune società dedite al recupero rifiuti ferrosi nelle quali alcuni componenti degli organi decisionali erano vicini ad esponenti del «clan dei Casalesi». Un quadro a tinte fosche, che mostrerebbe uno «scarto» tra ciò che è emerso fino ad ora nel corso delle indagini giudiziarie svolte sul territorio lucano e la realtà fattuale sul traffico illecito di rifiuti. E’ di appena poco tempo fa, una interpellanza urgente, dall’esponente del Pd Alessandro Bratti, presidente della commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, insieme ad altri trenta parlamentari, secondo cui “La Basilicata, a fronte di introiti per 159 milioni, ha subito un inquinamento dell’aria e delle falde acquifere preoccupante. Chiedo al governo di riconsiderare e quindi modificare, in tempi brevi, la Strategia Energetica Nazionale, promuovendo la produzione di energia da fonti rinnovabili e riducendo, al contempo, la produzione di energia da fonti fossili[3].

Devastazione e saccheggio go on: l’ombra nera del deposito nucleare

La Basilicata è storicamente terra di conquiste e depredamenti. Ha subito la colonizzazione della Magna Grecia; la conquista romana; i successivi domini bizantino, longobardo e normanno; le sanguinose repressioni borboniche ed austriache; e per finire le vicende del Regno d’Italia e della Repubblica Italiana. Terra di confino durante il fascismo, da sempre incarna l’espressione del sopruso e dell’ingiustizia coloniale. La più recente, appunto, quella messa in atto attraverso la svendita delle sue risorse naturali alle lobbies del petrolio e dello sfruttamento ambientale, in un sistema dominato dalla deregulation che privilegia le operazioni di mercato alla tutela della vita.

Una politica di gestione del territorio oscenamente pianificata e realizzata senza alcun coinvolgimento della popolazione locale, su cui, di secolo in secolo, si riversano sempre maggiori i costi di scelte predatorie.

Il prezzo che dovrà pagare a causa di decenni di politiche inique di gestione del territorio è elevatissimo, e il danno al territorio, molto probabilmente insanabile. Un disastro ambientale che interessa l’aria (inquinamento dagli impianti di desolfurizzazione petrolifera, stoccaggio e estrazione, inceneritori, cementifici, ferriere), il suolo (fanghi delle lavorazioni petrolifere, incidenti delle estrazioni, interramento rifiuti, acidificazione della Val D’Agri) e l’acqua, vera ricchezza della regione, fonte di approvvigionamento non solo per i suoi abitanti ma anche per alcuni milioni di cittadini di Puglia, Campania meridionale e Calabria settentrionale, che dipendono dai suoi bacini idrici.

Un disastro causato principalmente dalle estrazioni petrolifere e dalle attività correlate (desolfurizzazione, stoccaggio, reiniezione e trattamento reflui, trasporto). Ma connesso anche al sistema di discariche e di incenerimento, al ciclo di gestione integrata rifiuti, alle centrali a biomasse (Centrale del Mercure, Bernalda, Senise), cementifici (Barile e Matera), insediamenti industriali, aree SIN (Val Basento, Tito), impianti di produzione del bitume (Baragiano, Sant’Angelo Le Fratte), ferriere (SiderPotenza) e, da ultimo, il ciclo di trattamento scorie radioattive (Itrec della Trisaia a Rotondella).

Come se non bastasse, sulla martoriata regione, incombe adesso anche l’ombra nera di un deposito nucleare nei territori di Matera e Irsina. Secondo alcune indiscrezioni, la Basilicata , potrebbe trovarsi difronte ad una nuova minaccia ordita dal governo Renzi che avrebbe individuato tra le aree selezionate proprio la Basilicata nella mappa dei siti ancora secretata dal governo.

Si prevede di stoccare in un deposito nazionale di superficie 90.000 mc di rifiuti, di cui 75.000 mc per un tempo di appena 300 anni, e 15.000 mc ad alta attività in via provvisoria in attesa di individuare un sito sotterraneo idoneo. 15.000 mc di rifiuti ad alta attività, per i quali dovranno trascorrere migliaia di anni prima che diventino innocui[1].

Un bello sfondo, insomma, per la capitale europea della cultura 2019.

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[1]     https://augustodesanctis.wordpress.com/2015/06/14/il-deposito-per-i-rifiuti-nucleari-iter-in-corso-tra-biciclette-e-panchine-a-breve-la-mappa/

[1]              http://www.qualenergia.it/printpdf/articoli/20151124-trivelle-petrolio-e-salute-il-caso-della-basilicata

[2]              http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/023/017/d010.htm

[3]           da olambientalista.it fonte ANDkronos (http://www.olambientalista.it/?p=40755)

 

Di ritorno da Idomeni, le immagini e le emozioni si affollano in un vortice di rabbia ed indignazione. E’ difficile riuscire a tracciare una narrazione di quello che sta accadendo oggi ai confini dell’Europa, dove migliaia di persone in cerca di libertà e di una vita degna sono bloccate per un tempo indefinito, senza possibilità di poter progettare il proprio percorso di vita, né di avere informazioni su quanto accadrà a loro e alle proprie famiglie.

La situazione di Idomeni è stata definita “drammatica” anche dall’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, che ha accusato i leader europei di “violare i principi della solidarietà, della dignità e dei diritti umani”. Una delle più atroci sconfitte morali per l’Unione Europea e per le democrazie occidentali, dove l’umanità e la solidarietà vengono spietatamente calpestate in onore delle leggi del libero mercato.

Abbiamo camminato per ore, tra il fango e il fumo tossico che avvolge la tendopoli, ascoltando storie di vita infranta, parlando con i volontari delle ong, giocando con i piccoli che vivono nel campo, nonostante tutto sempre disposti ad elargire sorrisi.

Il campo di Idomeni, al momento, conta circa 11000 persone, di diversa provenienza. La maggior parte sono curdi e siriani, ma ci sono anche iracheni, afghani, giordani, libanesi, bengalesi, pakistani, etc.

Circa il 40% sono bambini, costretti a vivere tra freddo e immondizia. Le condizioni igienico-sanitarie sono estremamente precarie, con grave rischio di emergenze sanitarie, ci dice una volontaria di Medici Senza Frontiere, l’organizzazione più presente all’interno del campo di Idomeni. Il rischio, inoltre, è che con l’aumento delle temperature, possano scatenarsi gravi epidemie all’interno della struttura. Oltre ai tendoni di Medici Senza Frontiere, sono presenti diverse associazioni per la tutela dei diritti umani, oltre a poche tende dell’UNHCR.

I volontari delle ong si impegnano a gestire la distribuzione di abiti e alimenti, a svolgere attività ludiche con i bambini, a gestire la struttura del campo. Quello che percepiamo, e che ci viene confermato da diversi volontari, è la mancanza di un vero coordinamento tra le ong, e la loro insufficienza di fronte ad un’emergenza di tale portata.

La marcia #overthefortress: solidarietà dall’Italia

Durante la nostra seconda giornata di permanenza ad Idomeni, arriva la marcia #overthefortress: quasi 300 attivisti da tutta Italia. Sono attivisti degli spazi sociali del Nord Est, delle Marche e di Parma, siciliani NoMuos, il “team legale”, gli amici del Baobab, la delegazione di Welcome Taranto, l’associazione lgbt Anteros, la Federazione europea dei giovani Verdi, interpreti di arabo, sanitari, insegnanti e le donne della carovana per i diritti dei migranti.

Hanno portato camion di aiuti umanitari raccolti in Italia, allestito due postazioni per portare energia elettrica con generatori e per dare copertura wifi a tutta l’area, indispensabili per i profughi per comunicare con le famiglie e amici lontani via telefono e ricaricare i cellulari. Hanno persino montato un gazebo per le attività con i bambini. E sono ripartiti con la lista di nuovi impegni concordati con Medici senza frontiere, volontari e ong “di base”.

Idomeni e il popolo greco

In prossimità del campo, diverse abitazioni sono state messe a disposizione dagli abitanti greci per permettere ai profughi di trovare ristoro. Qui la solidarietà del popolo greco è altissima. Il gestore di un hotel poco lontano dal campo, ad Evzoni, continua a svolgere la sua attività, dando ospitalità gratuita a diversi profughi che dormono all’interno della sua struttura. E’ un gesto di estrema umanità. Proprio il popolo più vessato d’Europa, davanti alla sofferenza e alla miseria altrui non dà segno di barricarsi nel proprio egoismo. Alcuni leader politici dovrebbero prendere esempio da questa enorme lezione di vita che la gente comune è in grado di dare in risposta all’indifferenza dei governi.

Storie di vita ai confini

Ahmed è un uomo siriano che abbiamo incontrato nel campo. Si è reso subito disponibile a fare da mediatore culturale con alcuni profughi che comunicano in arabo. Ci spiega che le notti ad Idomeni sono insonni per molti, a causa delle temperature troppo rigide e dell’angoscia di ritrovarsi ancora di fronte all’orrore. Ha lasciato la Siria, il suo Paese di origine, perché la sua città era stata bombardata. Ha perso diversi cari a causa della guerra. Vuole lasciare un messaggio ai leader politici europei “Siamo qui per ottenere salvezza. Siamo arrivati in Europa per un sogno di giustizia. Pensavamo fosse un posto in cui i diritti fondamentali della persona vengono rispettati. Volete che torniamo in Siria? Bene, fermate la guerra e avremo di nuovo un posto in cui tornare”.

In questi giorni in molti stanno lasciando il campo a bordo degli autobus inviati dalle autorità greche per il trasferimento verso i cosiddetti “campi attrezzati”, ovvero campi militarizzati che fungeranno da hot spot per lo smistamento dei richiedenti asilo. L’operazione è coordinata dall’UNHCR, l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, e si inserisce nel contesto del negoziato Europa-Turchia. Secondo alcune fonti l’obiettivo è quello di sgomberare il campo di Idomeni entro il 4 Aprile, data in cui entrerà in vigore l’accordo siglato tra UE e Turchia.

L’Accordo UE-Turchia: 6 miliardi di euro ad Ankara per il mercanteggiamento dei migranti

Un accordo fortemente contestato da diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani. Secondo Amnesty International l’Unione europea rischia di rendersi complice di gravi violazioni dei diritti umani ai danni di rifugiati e richiedenti asilo in Turchia. Nel rapporto, intitolato “Il piantone dell’Unione europea”, già nel 2015 Amnesty International denunciava come, in parallelo con i colloqui tra Turchia e Unione europea in tema d’immigrazione, le autorità di Ankara abbiano fermato centinaia di rifugiati e richiedenti asilo e li abbiano trasferiti in pullman verso centri di detenzione isolati. Alcuni di loro hanno riferito di essere rimasti incatenati per giorni, di essere stati picchiati e infine di essere stati rinviati nei paesi da cui erano fuggiti.

L’accordo tra UE e Turchia prevede che tutti i “migranti irregolari” che arrivano in Grecia attraverso la rotta balcanica, siano rimandati indietro in Turchia. Eppure, proprio l’assenza di corridoi umanitari sicuri e legali sulla rotta balcanica, determina la condizione di “irregolarità” di chi ha dovuto affrontare un viaggio al limite della sopravvivenza, affidandosi ai trafficanti di migranti per portare in salvo se stesso e la propria famiglia da guerre miseria e persecuzioni.

Per ogni profugo che sarà riammesso in Turchia dalla Grecia, l’Unione europea s’impegna a riammetterne uno sul suo territorio attraverso un visto umanitario. Tutto l’accordo si basa sul riconoscimento della Turchia come “Paese terzo sicuro” o come “Paese di primo asilo” per quanti successivamente arrivano in Grecia. Definizioni entrambe inappropriate come confermano le condanne che subisce dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La Turchia inoltre mantiene tutt’ora la limitazione geografica alla Convenzione di Ginevra, ed è tenuta ad accettare richieste d’asilo provenienti solo da cittadini europei. Un fatto che esclude siriani, iracheni, afgani (per citare 3 dei Paesi in cui attualmente è più pericoloso vivere) dal riconoscimento dello status di rifugiato. Evidentemente, la Turchia non può essere considerata un “Paese terzo sicuro” dove rinviare persone bisognose di protezione internazionale.

“L’altra grande preoccupazione” come afferma il CIR (il Consiglio Italiano per i Rifugiati) “è che questo accoda possa essere la causa dell’apertura di altre rotte, ancor più pericolose, che possono riguardare la Bulgaria, l’Albania e i Paesi del Nord Africa. Rotte che potrebbero avere conseguenze per il nostro Paese. La nostra esperienza ci dice, purtroppo, che misure così restrittive non impediscono ai rifugiati di arrivare, ma complicano e rendono ancor più insicuro il loro viaggio”.

Il viaggio dell’orrore

W. ci racconta del viaggio per arrivare qui. E’ partito dalla Siria con sua moglie incinta e i suoi bambini di 4 e 5 anni, assieme ad altre decine di persone. I suoi genitori gli hanno dato tutti i soldi che avevano per sostenere il viaggio verso l’Europa, e portare in un posto più sicuro la sua famiglia. Gli hanno raccomandato di raccontare agli europei che in Siria sono i civili a pagare le conseguenze delle scelte irresponsabili dei governi. Hanno camminato dalla Siria alla Turchia per ore. Solo per qualche breve tratto, un po’ più sicuro dai bombardamenti e libero dalle postazioni militari del governo siriano, hanno viaggiato in autobus.

Sono giunti al confine turco-siriano passando attraverso campi e montagne. Al confine sono stati intercettati dai trafficanti, sciacalli che fanno soldi sulla pelle di chi fugge dagli orrori della guerra. In cambio di denaro, li hanno condotti verso la costa turca evitando i controlli. Sua moglie era incinta di 6 mesi quando sono partiti.

Come già detto, la Turchia mantiene tuttora la limitazione geografica alla Convenzione di Ginevra, dunque la regolamentazione sul diritto d’asilo in questo stato è assolutamente insufficiente. In Turchia diventare regolari è molto difficile. Non avendo nessuna forma di protezione sostanziale, il rischio è di finire nei circuiti del mercato del lavoro nero turco, che raggiunge tuttora percentuali spaventose. Significa, per chi già scappa da situazioni terribili, venire ingurgitati in un meccanismo in cui si è considerati come veri e propri schiavi. “Affidarsi ai trafficanti non è una scelta, è l’unica strada” ci dice W. con il pianto agli occhi.

Una volta giunti sulla costa turca, W. ci racconta che per attraversare l’Egeo e giungere sulle coste greche su un gommone, hanno dovuto pagare ai trafficanti 600 euro a persona. Un viaggio terribile. 5 ore di urla disperate dei bambini e delle donne presenti sul gommone, in cui erano presenti 55 persone. Sulle coste greche sono stati aiutati dai volontari delle ong presenti. Poi hanno proseguito il viaggio verso Kavala. E da Kavala verso Idomeni.

“Siamo confusi, depressi e arrabbiati. Siamo bloccati qui da un mese, e non abbiamo nulla per proteggere i nostri bambini dal freddo. Lasciami dire questo: siamo scappati in quanto “rifugiati” e siamo arrivati in Europa attraverso questo terribile viaggio. Credevamo di trovare nell’UE un’istituzione potente, che permettesse alle persone di salvarsi ed ai bambini di potersi curare o magari di poter andare a scuola. Abbiamo trovato tanti volontari da tutto il mondo che ci hanno aiutati. Ma sono solo persone. Chiediamo all’Europa di aiutarci, perché non abbiamo alternative. Siamo esseri umani. Non siamo animali.”

Un altro ragazzo ci racconta di essere stato costretto a guidare il barcone su cui erano presenti i suoi compagni di viaggio: 15 adulti e 44 bambini. “La mafia turca, dice, mi ha puntato la pistola alla testa. Tuttora non riesco a chiudere occhio. Ho ancora nelle orecchie le urla dei bambini e il terrore di poter essere stato il responsabile della loro morte in mare.”

A.,invece ci racconta un’altra terribile storia: la sua città in Siria non è stata bombardata. Daesh (l’ISIS) ne ha preso il controllo militarizzandola. Gli hanno proposto di fornire assistenza economica alla sua famiglia per tutta la vita se fosse andato in Europa a farsi esplodere. Ha deciso di rifiutare questo ricatto ed è dovuto fuggire, con grande dignità e coraggio. Adesso si trova a vivere questo incubo, trattato da reietto ai confini del sogno di libertà che aveva nutrito arrivando in Europa.

Sono molti quelli che hanno attraversato la Turchia, in mano ai trafficanti, per arrivare al confine greco-macedone. Sono molti perché non esistono canali umanitari per il diritto d’asilo europeo che garantiscano percorsi autorizzati e sicuri di ingresso per chi fugge dalle persecuzioni, una degna accoglienza a partire dal riconoscimento del titolo di soggiorno oltre che di percorsi di inserimento nel territorio, e l’apertura dei confini interni all’Europa.

Nel frattempo i paesi dell’ UE sono in balia del ricatto di un sistema finanziario che ha affamato diversi popoli (tra cui proprio quello greco e quello italiano, i più esposti ai flussi migratori), legittimando xenofobie e chiusure identitarie, e arricchendo banche e multinazionali. Il famoso 1% che detiene il 99% della ricchezza globale.

Le stesse che, per il dominio delle risorse naturali (come il petrolio), hanno strutturato un sistema post coloniale mostruoso. Il tutto con la benedizione dei governi occidentali, impegnati a loro volta a risolvere le proprie tensioni storiche attraverso le famose guerre per procura, armando gruppi informali terroristici e provocando danni enormi ed insanabili nei territori da cui adesso la gente è costretta a scappare. Senza considerare l’effetto dei cambiamenti climatici, provocato sempre da un sistema di sviluppo insostenibile e predatorio, per cui diverse aree del pianeta sono e progressivamente saranno sempre più inabitabili.

Ed eccone le conseguenze. A pagarne il prezzo, badiamo bene, saremo tutti. I flussi migratori non si fermeranno. E, ne sono convinta, se non ci sarà un’inversione di rotta da parte delle istituzioni europee, che privilegi solidarietà e riconoscimento dei diritti umani, su questa irresponsabile indifferenza l’UE andrà in frantumi. Siamo di fronte ad una sfida epocale.

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